A. Skujina, Dubbio 11, 2012, 35x38, acrilico su carta |
Il rantolo veniva da lì, da fuori,
proprio sotto la finestra della mia stanza da letto. Era un verso che
non saprei definire, era qualcosa che non avevo mai sentito prima.
Dopo aver vissuto qualche anno anno in campagna, ho imparato a
distinguere tutti i suoni e le voci della natura e questo non ne
faceva parte per un semplice motivo: non era naturale. Veniva dal
profondo: rabbioso, disperato e malvagio allo stesso tempo.
Mi avvicinai alle persiane provando a
scorgere qualcosa ma l'unica cosa che riuscivo a distinguere erano le
cime degli alberi schiaffeggiate dal vento. Il rantolo si interruppe
per un secondo. Poi ricominciò, più forte di prima.
Dovevo capire cosa fosse quel lamento,
altrimenti avrei passato il resto dei miei giorni nel terrore di
sentirlo di nuovo.
Decisi di uscire.
Appena aprii la porta la tramontana mi
diede il suo benvenuto, scompigliandomi i capelli e costringendomi ad
abbassare lo sguardo per evitare che la terra mi entrasse negli
occhi. Le gambe, già tremolanti, ebbero uno spasmo per quel freddo
inatteso.
Feci due passi alla mia destra e quando
risollevai di nuovo la testa mi bloccai raggelato, perché fu allora
che lo vidi.
Seduto, appoggiato con la schiena al
muro, di fianco alla finestra, c'era quell'essere. Era un uomo, ma
non era un uomo. Aveva il corpo deforme, totalmente sproporzionato;
non aveva gambe ma un ammasso di bozzi disarticolati e irregolari.
Aveva il capo chino e, al posto dei capelli, delle specie di fili di
paglia secca gli nascondevano il volto o qualsiasi altra cosa ci
fosse lì sotto. Notai che le sue mani, enormi e rattrappite, in
preda a movimenti convulsi si muovevano a ridosso del ventre gonfio.
In quella frazione di secondo in cui
gli occhi di colpo si abituano all'oscurità, capii. Penso che
nessuno possa sopportare la vista di un orrore del genere. E io non
faccio eccezione.
Lo stomaco di quell'essere era
dilaniato, squarciato. E Lui ci affondava dentro i suoi arti, che si
muovevano incontrollati, come impazziti, finché con violenza Lui non
riusciva a riprenderne il domino e a spingerli dentro. Con la stessa
violenza estraeva le sue stesse viscere. E poi... poi se lo mangiava,
ingozzandosi a tal punto che rimetteva istantaneamente ciò che
ingurgitava.
Il mio terrore e il mio disgusto era
inferiore solo alla famelicità con la quale faceva scempio di sé.
Sentii le vertebre accartocciarsi l'una
sopra l'altra. E le gambe... beh, le gambe non le avevo più. Caddi a
terra, all'indietro.
Fu allora che si accorse della mia
presenza. Si voltò e silenzioso e infido strisciò veloce come un
serpente e, neanche il tempo di un battito di ciglia, era a meno di
un metro di distanza da me.
D'improvviso il silenzio: il vento si
placò e né da lui né tanto meno da me veniva più alcun suono. Per
un attimo ebbi l'assurda sensazione che fossimo due innamorati troppo
timidi per darsi il primo bacio.
Ma poi.
Ma poi lentamente sollevò il capo. I
fili di paglia sulla sua testa si aprirono come un sipario, portando
allo scoperto il suo volto. Che non era un volto: bianco come la
luna, non aveva apparentemente bocca, non aveva naso, non aveva
lineamenti. E non aveva occhi, a meno che non si potessero definire
tali quelle due punte di spillo così nere che mi penetravano dentro
anche in quel buio.
Ancora il silenzio.
E poi urlò. Lo so, ho detto che non
aveva bocca, ma in quel momento era come se la vedessi, anche se non
c'era. E da lì, da quell'antro invisibile che fino a poco prima
aveva dilaniato la propria carne, uscì un urlo che mi risuonerà sempre dentro, infinito, lacerante,
terrificante, defintivo:
“UAAAAAAAAAAARRRRGHHRODOTAAAAAAA'”
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