sabato 4 maggio 2013

La visita

A. Skujina, Dubbio 11, 2012, 35x38, acrilico su carta




Il rantolo veniva da lì, da fuori, proprio sotto la finestra della mia stanza da letto. Era un verso che non saprei definire, era qualcosa che non avevo mai sentito prima. Dopo aver vissuto qualche anno anno in campagna, ho imparato a distinguere tutti i suoni e le voci della natura e questo non ne faceva parte per un semplice motivo: non era naturale. Veniva dal profondo: rabbioso, disperato e malvagio allo stesso tempo.
Mi avvicinai alle persiane provando a scorgere qualcosa ma l'unica cosa che riuscivo a distinguere erano le cime degli alberi schiaffeggiate dal vento. Il rantolo si interruppe per un secondo. Poi ricominciò, più forte di prima.
Dovevo capire cosa fosse quel lamento, altrimenti avrei passato il resto dei miei giorni nel terrore di sentirlo di nuovo.

Decisi di uscire.
Appena aprii la porta la tramontana mi diede il suo benvenuto, scompigliandomi i capelli e costringendomi ad abbassare lo sguardo per evitare che la terra mi entrasse negli occhi. Le gambe, già tremolanti, ebbero uno spasmo per quel freddo inatteso.
Feci due passi alla mia destra e quando risollevai di nuovo la testa mi bloccai raggelato, perché fu allora che lo vidi.

Seduto, appoggiato con la schiena al muro, di fianco alla finestra, c'era quell'essere. Era un uomo, ma non era un uomo. Aveva il corpo deforme, totalmente sproporzionato; non aveva gambe ma un ammasso di bozzi disarticolati e irregolari. Aveva il capo chino e, al posto dei capelli, delle specie di fili di paglia secca gli nascondevano il volto o qualsiasi altra cosa ci fosse lì sotto. Notai che le sue mani, enormi e rattrappite, in preda a movimenti convulsi si muovevano a ridosso del ventre gonfio.
In quella frazione di secondo in cui gli occhi di colpo si abituano all'oscurità, capii. Penso che nessuno possa sopportare la vista di un orrore del genere. E io non faccio eccezione.
Lo stomaco di quell'essere era dilaniato, squarciato. E Lui ci affondava dentro i suoi arti, che si muovevano incontrollati, come impazziti, finché con violenza Lui non riusciva a riprenderne il domino e a spingerli dentro. Con la stessa violenza estraeva le sue stesse viscere. E poi... poi se lo mangiava, ingozzandosi a tal punto che rimetteva istantaneamente ciò che ingurgitava.
Il mio terrore e il mio disgusto era inferiore solo alla famelicità con la quale faceva scempio di sé.
Sentii le vertebre accartocciarsi l'una sopra l'altra. E le gambe... beh, le gambe non le avevo più. Caddi a terra, all'indietro.

Fu allora che si accorse della mia presenza. Si voltò e silenzioso e infido strisciò veloce come un serpente e, neanche il tempo di un battito di ciglia, era a meno di un metro di distanza da me.
D'improvviso il silenzio: il vento si placò e né da lui né tanto meno da me veniva più alcun suono. Per un attimo ebbi l'assurda sensazione che fossimo due innamorati troppo timidi per darsi il primo bacio.
Ma poi.
Ma poi lentamente sollevò il capo. I fili di paglia sulla sua testa si aprirono come un sipario, portando allo scoperto il suo volto. Che non era un volto: bianco come la luna, non aveva apparentemente bocca, non aveva naso, non aveva lineamenti. E non aveva occhi, a meno che non si potessero definire tali quelle due punte di spillo così nere che mi penetravano dentro anche in quel buio.
Ancora il silenzio.
E poi urlò. Lo so, ho detto che non aveva bocca, ma in quel momento era come se la vedessi, anche se non c'era. E da lì, da quell'antro invisibile che fino a poco prima aveva dilaniato la propria carne, uscì un urlo che mi risuonerà sempre dentro, infinito, lacerante, terrificante, defintivo:
“UAAAAAAAAAAARRRRGHHRODOTAAAAAAA'”

Nessun commento:

Posta un commento