venerdì 4 febbraio 2011

L'aria fra le dita (cap. 3)


A. Skujina, Bologna, Via San Leonardo, 40x60, olio su tela, 2008
Clicca per leggere il primo e il secondo capitolo.
Bologna apriva le sue giunoniche braccia all’inizio della primavera e lei, a mezz’ora dall’orario di uscita, fu colta da una frenesia che le rendeva insopportabile ogni secondo in più passato su quella sedia. Muoveva le gambe e contorceva il bacino alla ricerca di una posizione, con un unico pensiero. Non il ricordo di quanto era accaduto quella mattina a casa, non Jacopo, il suo gesto. Neanche tutto quello che era successo dopo in azienda dove c’era stata una reazione che supponeva paragonabile alla perdita prematura del figlio prediletto. Voleva solo uscire e quando l’aria aperta la accolse, benedisse ripetutamente il suo orario di lavoro part-time tanto quanto era solita maledirlo di inverno, lasciata sola nel grigio velenoso della città.
Visse con un po’ di fastidio i venti minuti di autobus per tornare in centro, la frenesia tornò più forte di poco prima. La sua attenzione fu attratta dallo sguardo di un ragazzo africano che incontrava spesso su quella corsa: l’effetto che la primavera aveva avuto su di lui sembrava opposto a quello che aveva subito lei. Solitamente sorridente, speranzoso, ora aveva la testa appoggiata al finestrino e gli occhi spenti dal sole che gli aveva ricordato dov’era.
La rivolta bruciava l’Europa negli schermi del negozio di via Dante. Bruciava ovunque, da Glasgow a Kaunas a Barcellona, dove in quel momento, in Avenida Portal de l’Angel, i manifestanti stavano devastando El Corte Inglès. I protagonisti si alternavano su televisori che nessuno avrebbe comprato: quelli che assalivano il futuro, con rabbiosa privazione; quelli che gestivano il presente, sempre più inutili e impuniti; quelli che offrivano il passato, vestendolo a soluzione. Un grande mondo, incendiabile da un dito, che lei prontamente si guardò. E le sembrò che anche le persone intorno a lei facessero lo stesso.
Una voglia incontrollabile e un gelato, fregandosene dei suoi cinque chili di troppo, perché ognuno lotta come può e soprattutto come crede.
Aveva quasi 30 anni e da almeno la metà il suo posto sul prato dei Giardini Margherita era sempre quello, superato il ponticello e il bar, sulla destra dell’imbocco del sentiero che fende la grande distesa d’erba. Si tolse la giacchetta, che diventò il suo piccolo lenzuolo. Stesa, immobile con le braccia che le cadevano lungo il corpo, lasciò che il tiepido calore del sole le accarezzasse le palpebre chiuse e la pelle candida e sentì i capelli scivolare giù dalla fronte. Un soffio di vento le penetrò nella maglietta, sorprendendo il caldo della sua pancia e intirizzendo i suoi muscoli in una sensazione di eccitazione che risalì dalla schiena per arrivare fin su le punte dei capezzoli. Ascoltò le poche voci, le tante lingue presenti ai giardini quel giorno mescolarsi nelle sue orecchie, Babele. Schiuse le labbra, non per parlare ma per sognare.
E sognò manifestanti inferociti davanti alla sede di una banca, fermarsi e guardare attoniti che i vetri venivano rotti dall’interno. Da Jacopo, che poi si univa a loro saliva sull’autobus che lei guidava con Sandro al suo fianco. Tutti calmi ora, tutti bambini. Tutti con il viso schiacciato sui finestrini a guardare suo padre, nella cascina di Monteveglio dove per hobby costruiva cucce per cani, costruirne una più grande. Sentì il desiderio insopprimibile di entrarci per guardare il mondo da lì dentro, come sempre aveva fatto da bambina; il sapore della prima birra bevuta, a 15 anni in un bar di via Parigi con quel ragazzo timido che ora non aveva nome; sentì le mani di Sandro che le stringevano le braccia.
Un brivido più forte le aprì gli occhi, il giorno stava finendo. Si alzò morbida e s’incamminò verso l’uscita di Porta Castiglione, in direzione di un tramonto che batteva e infuocava, con lampi di rosa forte e azzurro, i tetti e il cielo. Neanche un po’ di freddo. Tutto bruciava quel giorno e prese la strada di casa con la piacevole sensazione di possedere il controllo, pur non capendo il senso, di quell’incendio.
 continua...

1 commento:

  1. "perché ognuno lotta come può e soprattutto come crede."
    Bello, sì.

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