mercoledì 12 gennaio 2011

L'aria fra le dita (cap. 1)

Agnese Skujina, Le mani di Maloa, olio su tela, 100x100, 2010

 Un anniversario si avvicina e per onorare quell'anniversario comincio a riproporre qui il racconto che scrissi, anzi che mi venne fuori da dentro, in quell'occasione. Ok, è di seconda mano, ma è qualcosa a cui tengo.

In quel momento ripensò alla sua scena preferita de “I cento passi”. Quella in cui Peppino decide di terminare la sua occupazione solitaria di Radio Aut. Mentre abbandona la sede della radio, incontra uno dei figli dei fiori che erano stati la causa di quel gesto. Il ragazzo gli dice di capire il motivo di quello che aveva fatto, ma che non avrebbe dovuto occupare la radio, perché quella radio non era sua. Peppino allora gli risponde che per farsi sentire, qualche volta, bisogna alzare la voce. E’ qui che sbagli, gli dice il ragazzo, perché se alzi la voce fai vedere che stai male, che hai paura. Non ti fai sentire, non ti fai ascoltare.

A volte, pensò lei, ancora più giusto è il silenzio. Sentiva le vene del collo pulsare e le mani irrigidirsi, ma non veniva fuori niente. Cosa puoi dire davanti ad un omuncolo annebbiato da se stesso e dal suo potere, pieno della sua totale mancanza di senso dell’altro, che delira sulle possibili mestruazioni di una povera disgraziata in coma vegetativo da 17 anni. Puoi solo compatire la profonda solitudine della mente che aveva generato quel concetto. Pensò a lei in quel letto con la bocca immobile e serrata, senza capelli, rannicchiata. Un senso di calore le invase il ventre e si passò una mano fra i lunghi capelli, capendo di non essere lei.

Si alzò, spense il televisore, finì il suo caffè e, prima di uscire, fece capolino nella stanza. Sandro dormiva ancora profondamente. Nel sonno, il suo corpo esprimeva possenza e quell’arroganza maschile che da sveglio aveva imparato a mitigare. La parte superiore della schiena era leggermente incurvata, sovrastando il cuscino. Il braccio con cui la aveva tenuta avvinta fino a mezz’ora prima era rimasto nella stessa posizione, a segnare il territorio. Solo il volto, imbronciato, quasi risentito, trasformava il rispetto che incuteva quel corpo in amore. La luce del sole filtrava dalle serrande e la finestra, leggermente aperta, non aveva assolto al suo compito, lasciando nella stanza gli odori e l’eco dei gemiti di poche ore prima. Quella notte si erano amati guardandosi negli occhi, di dolcezza consapevole, un dono, una fortuna, un’occasione che non la vita, ma loro stessi erano capaci di regalarsi. Non sempre. Per fortuna.

Si girò tornando sui suoi passi, i passi che faceva ogni mattina, e uscì di casa, convinta di non averlo mai fatto prima.

Il sole primaverile, un cielo stranamente terso e quell’aria avvolgente, quel tipo di aria che ti fa sentire bene ma anche che ti stai perdendo qualcosa, restituirono forma al suo corpo. Decise di non ascoltare musica quel giorno e camminava a passo lieve guardando le persone sul marciapiede dell’altro lato della strada apparire e scomparire dietro le colonne dei portici, senza chiedersi, come invece faceva sempre, quale mai fosse la loro direzione. Lieve, non pensando a quello che era successo poco prima.

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