giovedì 10 febbraio 2011

L'aria fra le dita (epilogo)

A. Skujina, Prima o poi l'amore arriva, 30x30, olio su tela, 2010

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Ancora adesso ogni momento e ogni sensazione di quel giorno sono impressi sulla sua pelle. Sente ancora sui polpastrelli la vera consistenza delle cose toccate. Ricorda perfettamente il tocco dell’aria quando uscì di casa la mattina e la brezza dei Giardini Margherita. Da quel momento in poi, ricordare le persone che l’avevano accompagnata in quella giornata avrebbe voluto dire ricordare quelle persone come le aveva viste proprio in quella giornata. Come avesse scattato delle foto. Se ci pensate bene capita raramente di fissare definitivamente il ricordo di una persona in un determinato momento, senza poi modificare più quell’immagine. Capita raramente e quasi sempre è una fortuna. Di vedere il nodo fra i fili intrecciati di vite affidate al caso e coltivate nell’illusione di poter fare una scelta, limitata già di per sé dal fatto di essere obbligati a farla. Raramente riesci a vedere quante cose bruciano attorno e si divincolano vicino a un letto d’ospedale, nella disperata serenità di Jacopo, nello sguardo ritrovato di una grande giornalista, in un calice di vino o nel letto dove Sandro dormiva. In quello che succede agli altri.
Soltanto non riesce a capire perché l’unico ricordo sbagliato di quel giorno riguarda se stessa: non si vede come era, ma si ricorda vestita e inconsapevole per la festa di diciotto anni della sua amica Daniela, teletrasportata da 12 anni prima.
 Guardò il riflesso del suo stesso sguardo nella lama del coltello. Ascoltava “Robinson” di Vecchioni. Aveva gli occhi grandi e neri di chi aspetta qualcosa, qualcuno. Fissò la lama.
 "Il bambino segue un sogno/l'avventura fuori dal cortile/onda piena nelle notti chiare/la sorpresa di una fata /che dal niente fa una palizzata /una nave persa fra le stelle /quando il grillo dal camino canta e non si sa dov'è/ma l'eroe sorride ed è con te/quando il vento ha il suono di una voce dentro l'albero/e la luna fa sognare io da grande sarò/come Robinson, Robinson, Robinson...”
 La prima zucchina le veniva sempre così, tagliata a rondelle completamente irregolari, di spessore diverso. E’ sempre quella che poi si cuoce per ultima. Con la seconda zucchina acquisiva sicurezza, i pezzi le venivano più meno uguali. Quello che le mancava era la velocità. Alla terza zucchina arrivava anche quella, le rondelle diventavano sottilissime e rimanevano attaccate l’un l’altra nella parte inferiore. Sollevò quella specie di stella filante verde e ne staccò un pezzo. Poteva quasi guardarci attraverso.
 “L'orologio dei trent'anni/batte colpi che non lascian segni/e non ne ha lasciati il tuo fucile;/qui la notte è solo vento/roba consumata, è un fuoco finto,/chi non dorme aspetta le astronavi/qui l'amore passa e passa il tempo di cantarselo/nel cortile chi ti aspetta più?/Sotto il cielo, sulla spiaggia, un vecchio mago zingaro/e la luna fa pensare; " io da grande sarò/come Robinson, Robinson, Robinson..."
 Spense la musica prima dell’ultima strofa e solo allora si rese conto che stava respirando a bocca aperta e che il cuore le stava violentando il petto. Solo allora si rese conto di non poter più aspettare e corse lì, proprio lì dove custodiva un segreto, da quella mattina.
 Dieci minuti dopo era seduta, abbandonata sulla poltrona, con la testa reclinata all’indietro sullo schienale e gli occhi, spalancati, fissi sul soffitto. Paura, una lacrima le scese giù, fin sotto il mento. Era la seconda quel giorno. Catturò la terza con le palpebre chiudendo gli occhi.
Si alzò, si affacciò alla finestra: tirò dentro nei polmoni, fin nello stomaco, tutta l’aria che poteva. La restituì silenziosamente e tornò a sedersi. Tutto ora era a posto. Tutto era incredibilmente al suo posto.


Sandro Garzi finì il suo turno alle 21.30. Ventisette minuti dopo era già in via San Rocco a cinquanta metri da casa. Gli strascichi di una giornata passata a guidare autobus consistevano per lui principalmente nel classificare mentalmente tutti i passeggeri che, per un motivo o l’altro, gli avevano rivolto la parola. Su ognuno costruiva storie surreali e divertenti, perché a differenza di quasi tutti gli altri conducenti, ci prestava attenzione alla gente; ed aveva una fantasia fervida, che non esternava mai ma che riservava solo a se stesso e ad un’altra persona. Era inoltre un uomo che si meravigliava spesso di sé, pur ritenendosi fondamentalmente stupido o forse proprio per questo.
Si meravigliò anche quella sera quando arrivò al sesto piano, rendendosi conto di non averla pensata neanche per un istante, non ricordava da quanto. Si meravigliò, mentre infilava la chiave nella toppa, di avere una voglia così forte di vederla, come sentiva di non provarla, così intensa, non ricordava da quanto. Quando la trovò lì, seduta sul divano, che gli sorrideva serena, anche lui sorrise e si meravigliò ancora. Perché con quel sorriso non aveva risposto a lei. Semplicemente aveva appena scoperto come era stato facile, al primo tentativo, riconoscere il momento in cui il sorriso di una donna diventa il sorriso di una madre.

A Beppino Englaro, due anni dopo.

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